A SILVIA
Non vedevo Silvia già da qualche giorno, a Recanati si diceva che un grosso male l’aveva presa e
che le stava portando via la sua giovinezza.
Stava appassendo lentamente.
Mi ero affezionato alla sua vista: la guardavo tessere sulla sua poltroncina, con l’aria trasognante.
Forse immaginava il suo futuro, perché ogni tanto la vedevo sorridere e le sue gote si tingevano di
un rosa pesco. Mi domandavo se a volte pensasse anche a me.
Da quando non la vidi più, intenta a cucire, nel palazzo di faccia alla mio, incominciai a scrivere del
suo ricordo, quando al mattino Silvia era solita cantare, e la sua voce giungeva ai miei orecchi,
armoniosa. La osservavo cautamente dalle finestre del palazzo paterno: si alzava presto, apriva
tutte le persiane della casa, spalancava le tende, rinfrescava le stanze e si dirigeva alla grande
cucina. Era lei che si occupava della colazione per tutta la famiglia. Per i successivi pasti, ci
pensava la Signora Nonna, una donna austera che aveva rifiutato di andare a vivere con i nipoti e
il genero, dopo la morte dell’unica figlia. La suocera del Conte Pierleopardo compariva sulla soglia
del portone esattamente dieci minuti dopo il rintocco della messa. Indossava sempre abiti scuri,
impreziositi da fili d’oro. Silvia non era come la nonna, assomigliava alla madre: delicata e
semplice nelle vesti, come una fanciulla.
Un giorno la incontrai dinanzi il portone della sua abitazione, portava un cesto ricolmo di frutta e
verdura, mi offrii di aiutarla.
Non avevo mai sollevato dei pesi e l’impresa mi parve eroica.
Tornato a casa mi rimisi sulle mie sudate carte, ma la mano mi tremò, e il peso sulla mia schiena si
faceva sempre più pesante.
Sentii un crack.
La gobba aveva raggiunto una nuova piegatura.
Maggio 1818
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