Racconti di Barbara Fabrizio





L’angelo

Barbara Fabrizio


Il suo corpo era un cumulo di massi. Persino il naturale atto di respirare era impedito dalla pressione di un gigante invisibile che gli schiacciava lo sterno. Ogni valico, pendio, interstizio era percorso da rivoli di sudore che sfociavano nel mare colloso delle lenzuola. La mente, intorpidita, partoriva pensieri incoerenti. La cognizione della propria immobilità era la sola idea che riuscisse a farsi largo fra le dune desolate dell’intelletto. Con uno sforzo immane sollevò le palpebre e la vista si perse nella tenebra. Appena i suoi occhi si furono adattati all’oscurità, vide il soffitto della sua baracca illuminata da un chiarore ignoto. A un tratto il solaio cominciò a scendere giù, come attratto da un magnete. Era contrario alle leggi della fisica, eppure quel fronte compatto stava calandosi su Joel come un ragno gigantesco. Tentò invano di schiodarsi dal letto ma il suo corpo era soggetto a quella forza misteriosa. Richiuse gli occhi in attesa dell’impatto, mentre avvertiva il raspare dilaniante di artigli felini che si accanivano sulla pelle sottile del collo, dove la carotide era un torrente sotterraneo in piena.

Era in un bagno di sudore. Scattò a sedere con uno slancio che credeva estinto da tempo e scansò Mia con una manata prima di asciugarsi la fronte col lembo della maglietta. Guardò l’orologio appeso al muro: le due. Di nuovo. Da una settimana Joel si svegliava a quell’ora a causa dello stesso orribile incubo. Si sdraiò, esausto. Mia tornò da lui, piazzandosi sul suo petto e puntandogli addosso occhi di quarzo. Miagolò un paio di volte, poi prese a fargli le fusa, finché fu vinta dal sonno e si addormentò sopra di lui. Quel batuffolo di velluto nero gli faceva compagnia da sette giorni. Se l’era trovata davanti casa tutta bagnata e sola. Il destino aveva permesso a due solitudini di incontrarsi, così l’aveva accolta nel suo tugurio dandole nutrimento e amore. Il vecchio Ted, l’unico essere umano con cui Joel scambiava di tanto in tanto qualche parola, aveva notato subito i segni che Mia gli lasciava sul collo e lo aveva esortato a liberarsene.

‹‹Te l’ha mandata Satana! Rispediscigliela se non vuoi che ti chiami a sé! Sei giunto al capolinea, amico mio, e sta reclamando la tua anima!››

Joel aveva risposto al terrore superstizioso di Ted con le labbra piegate in un sorriso.

‹‹Potrebbe essere un angelo inviatomi dal Signore per cui, nel dubbio, me ne prenderò cura.››

Fissando il soffitto, accarezzò la testolina di Mia con affetto paterno, incurante del bruciore dei graffi coi quali l’amica lo strappava, puntuale, all’incubo che lo tormentava da quando era arrivata. Un carosello di domande insaziabili lo tormentava ma il torpore lo colse, riportandolo nell’onirico. 

Il giorno seguente lo trascorse come i precedenti, tra lavori nei campi e pasti frugali. La sera decise di godersi il tramonto seduto sul dondolo, all’aperto, con la sua compagna pelosa raggomitolata in grembo. L’aria odorava di gelsomino, i girasoli ondeggiavano uniti e il granturco riluceva ramato. Osservò il disco di fuoco adagiarsi sulla spalla brulla del monte, fino a coricarsi sulla schiena portando con sé la luce del giorno. Il buio invase la vallata. Joel rimase lì, sbocconcellando un pezzo di pane stantio fino a notte fonda. Non aveva sonno, una strana sensazione gli animava lo spirito. Udì in lontananza nitriti e belati lamentosi e aggrottò le sopracciglia canute. Le stalle di Ted erano come invase da uno spirito errabondo che generava scompiglio tra il bestiame. Mia, agitata, se la svignò in casa. Joel la richiamò, insospettito dal suo strano comportamento, quando un boato squassò la pianura. La terra cominciò a tremare con violenza e Joel si mise in salvo nel campo di granturco. Nel buio udì il crepitio della sua dimora sbriciolarsi come tabacco secco e crollare sulle proprie fondamenta con gran fragore. Le scosse cessarono dopo un minuto e tutto tornò immerso nel silenzio. Ancora sconvolto, Joel s’incamminò claudicante verso la casupola di Ted. Con enorme sollievo scoprì che né la casa né il suo abitante avevano subìto danni. Anche il bestiame era salvo. Passò il resto della notte da lui, poi all’alba andarono a cercare Mia fra le macerie, nella speranza di trovarla viva. Scavarono a mani nude ma quando rinvennero l’orologio si arrestarono, attoniti. Le lancette, schizzate di sangue, si erano fermate alle due e venti. Joel comprese di aver avuto ragione: Mia era entrata nella sua vita per salvargliela e, una volta portata a termine la missione, l’angelo dal manto nero era tornato in cielo. Abbandonò le ricerche e si allontanò insieme a Ted con l’orologio insanguinato stretto fra le mani tremanti.



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