IL FILM
"Volevo nascondermi" è un film difficile. Una pellicola complessa in ogni sua parte: recitazione, regia, sceneggiatura e soprattutto "disturbante" per uno spettatore distratto. "Volevo nascondermi" ha bisogno di completa attenzione, non è un film per passare il tempo.
Dobbiamo portare rispetto ad un uomo che era artista a 360° e questa biopic lo fa in maniera egregia. Antonio Ligabue viveva l'arte senza filtri: il naif, di cui era uno dei più grandi esponenti in Italia. Era riuscito a trasformare il suo stato mentale in dono ed è stata per tutta la vita "l'essenza" del suo lavoro. La purezze e l'ingenuità di un uomo che amava a tal punto gli animali da non disegnargli neppure la pioggia che li bagnasse.
Reduce da un infanzia difficile, il pittore arriva in Italia dalla Svizzera nel 1919, a Gualtieri. A causa dei suoi problemi fisici e mentali in pochissimo tempo viene considerato da tutti "lo scemo del villaggio". Questo di certo non giova al ragazzo appena ventenne, il piccolo paese lo isola e lui trova nella pittura una potente valvola di sfogo. Il contatto con la natura, soggetto preferito, diventa intimo. Una sorta di connessione con qualcosa di più grande di noi e di cui noi, dilaniati da preconcetti, non comprendiamo la provenienza.
Ligabue era un uomo solo che è riuscito a dare un senso alla sua vita attraverso la pittura, lanciando un messaggio importante: "L'arte può salvare la vita". L'uomo diventa un tutt'uno con la Natura selvaggia che nella sua semplicità riesce a regalarci immagini spettacolari senza barriere.
La sceneggiatura asciutta riesce ad attirare lo spettatore all'interno di quel mondo contadino, dove le parole sono superflue. La campagna emiliana fa da sfondo alla pellicola in una fotografia così intensa che pare di sentire l'odore della terra arsa dal sole.
Elio Germano con un interpretazione magistrale, riesce a "dipingere" la figura dell'artista senza diventare macchietta, accompagnandoci nella sua mente in punta di piedi per comprendere le sensazioni che lo hanno fatto diventare un pittore immortale.
Luca Albanese
L'ARTISTA
Parlando di Ligabue la prima cosa che viene in mente sono i combattimenti di animali, belve selvatiche o bestie da cortile rese con un’ampia pennellata gestuale e impetuosa, con colori vividi spessi e un segno nero angoloso, puntuto, netto e tagliente. Ligabue si personifica con gli animali dipinti, studiati, imitati nei campi e nei boschi in cui errava. La lotta tra vita e morte che rappresenta nei dipinti è il suo disagio interiore, un io lacerato costretto spesso a soccombere dinanzi a una cultura anacronisticamente positivista e una società che ha bisogno di additare il “pazzo” per convincersi della propria normalità. Per capire quanto sia imprescindibile la tematica del bestiario nell’arte di Antonio -unica forma di conoscenza di cui era capace, sola certezza di appartenere al mondo- basti pensare che di fronte alla Sistina di Michelangelo arrivò a dire che un pittore che non inserisce animai nei suoi dipinti non può essere considerato tale. Autodidatta, la passione per il disegno si manifesta in lui già da bambino, quando frequentava il collegio per ragazzi handicappati di Marlach, da cui sarà espulso per cattiva condotta, reagendo alle derisioni dei compagni con violenza. Ligabue è totalmente estraneo al suo tempo, non è consapevole dei dibattiti estetici riguardo l’arte e la cultura, eppure nei suoi dipinti sono ravvisabili delle affinità stilistiche a partire da Klimt, nella resa decorativa e a tessere e nella bidimensionalità della composizione, fino alla Scuola romana, da Mafai a Stradone a Borrelli, influenze certamente scaturite dalla frequentazione con Mazzacurati, pittore anch’egli, con cui fece conoscenza durante la vita errabonda nei boschi e da cui fu ospitato nella sua dimora.
Da questo momento arriverà il riscatto: l’artista inizierà a firmarsi Ligabue, e non più Laccabue, il cognome del patrigno, consapevolizzando così la sua condizione di pittore. La rivalsa gli permetterà di regalarsi una moto prima e successivamente di aprire una scuderia di automobili, di trattare male chi lo bistratterà difendendo invece i più deboli, gli emarginati, le prostitute e i bambini. Verso questi ultimi mantiene addirittura un timore reverenziale, tanto che gli si rivolge dandogli del voi. D’altronde la sua arte mira alla purezza, all’ingenuità, alla legittimazione della follia attraverso il primitivismo che si affianca al mito del “buon selvaggio” di Rousseau e di Gauguin. A proposito di follia, è inevitabile il reiterato paragone con Van Gogh, con cui condivide alcune scelte formali, la condizione di isolamento, e gli autoritratti ripetuti fino all’ossessività, quasi a ribadire il diritto di esistere, di far parte del mondo. Ma l’arte di Van Gogh è qualcosa di strutturato, risente della pittura olandese, di Rembrandt, va contro l’impressionismo pur schierandosi dalla parte di Cèzanne, mentre Ligabue è totalmente incolto ed estraneo ai tormenti intellettuali dell’epoca. La sua formazione risale alle visite al museo di scienze naturali di Sangallo, condottovi dal patrigno nei momenti di pausa dalle frequenti bevute. Un’arte, quella di Ligabue, in stretta congiunzione con la sua vita tormentata, la sua personalità folle, per cui la pittura è allo stesso tempo mezzo di sostentamento e strumento per ribadire il diritto di esistere, per salvarsi dalla morte.
Laura Cianfarani
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